E-Book: Leggi Roma al contrario

Leggi Roma al contrario

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Autore:
Genere:
Biografie/Fumetti/Poesie
Scaricato:
316
Data caricamento:
18/02/2014
Lingua:
Italiano
Caricato da:
andreamorlino
Dimensione:
0.42 MB
Voto medio:
3.0
Descrizione:
Il mio nome è Andrea ed io non sono in grado di piangere. Ventisei anni, da una provincia di Milano che non ha la forza di essere Milano ma nemmeno il coraggio di astrarsi a provincia. Una terra di mezzo. Ho un labrador bianco di quarantasette chili che ogni santa sera, nell’istante in cui mi salta addosso, ricrea il fulcro della vita; una laurea apparentemente inutile rivelatasi poi totalmente inutile in marketing/p.r./Lele Mora e Fabrizio Corona annessi. Settecentododici dvd che mi scrutano ogni mattina dalla mensola a destra del mio letto; un lavoro perennemente determinato in un’agenzia di concerti ed il sogno di aprire un ristorante a Vieste, la mia terra d’origine. Sono un ragazzo quasi uomo che sta vivendo una crisi adolescenziale arrivata con diec'anni di ritardo. Questa è la storia della mia crisi, lotta e rinascita. Una mattina mi svegliai e decretai insindacabilmente di essere in crisi. Segni caratteristici: da anni non riuscivo più a piangere. Una crisi astuta, mutevole, subdola. Io prendevo distanza da me. Io ero schiacciato in me. Io ero impaurito da me. Io mi sentivo senza età. ..... Un giorno a Bologna, durante un sopralluogo, caddi in una buca. Una fossa a primo impatto contenuta stava diventando la mia gabbia. Quella fossa era la mia crisi, solo apparentemente superabile, ma in realtà fangosa e per questo insuperabile. Io vedevo la luce, era a pochi centimetri da me, “E’ facile” pensavo, ma in realtà era irraggiungibile. E se la luce è irraggiungibile, che sia a pochi centimetri o a decine di metri da te, poco cambia: sempre irraggiungibile è. Quella fossa era la mia crisi. Ufficiale. Io ne ero prigioniero, senza sapere come uscirne. “STO MALEEE!” urlai con tutta voce che avevo in gola. Stai calmo. Non agitarti. Ho paura. ..... Guidavo verso Trento per un concerto. Forai. Scesi in una piazzola di sosta con le macchine che sfrecciavano a pochi metri. Ad un tratto, realizzai: l’autostrada era la nostra vita da percorrere, l’auto a tutta velocità stava a come te la faceva percepire la società attuale: a tutta velocità con l’illusione di essere fermo. Io non ce la facevo più, non volevo più fingere, volevo scendere, semplicemente scendere. Realizzai che ero assuefatto dal mio malessere. Fuga, dovevo fuggire!... Vieste, piazzale di casa. Alba. Alba di fiori. Alba di sfida. Alba di concetto. Ripensai che un anno il professore di chitarra mi diede da svolgere ogni giorno cento volte la scala di Do maggiore. Mi sistemavo sul retro della casa, sotto un sole battente ed incominciavo: do-re-mi-fa-etc. Lentamente, poi sempre più velocemente. Cento sante volte ogni santo giorno. Mio cugino, che aveva la finestra al piano di sopra e che probabilmente si era coricato solo un paio d’ore prima dopo l’ennesima notte di bagordi, batteva ogni mattina alla finestra imprecando: “Allora! Basta! Almeno cambia tonalità!” Ripetei quella scala cento volte per sessanta giorni, ovvero seimila volte, la facevo ormai ad una velocità impressionante. Quando a Settembre il professore disse “Bene, fammela sentire” partii e, alla quarta nota, mi inceppai. Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita. Non sono mai stato lucido nei momenti decisivi della vita. Ripetei nella mente questa frase lasciando cadere dalle mani la tazzina di caffè che si ruppe a terra in mille pezzi. Questo era un momento decisivo della mia vita e io non riuscivo a venirne fuori perché non ero stato lucido. O meglio, non ero stato lucido fino alla partenza di questo viaggio. Il professore che mi guardava in attesa dell’esecuzione del brano era il muro che io trovavo in me quando mia madre mi chiedeva di parlare. Perché non affrontavo quel muro? Non per paura od insicurezza, ma per mancanza di lucidità. Vivevo la situazione da fuori e dicevo “sarà per la prossima volta” ma intanto distruggevo il rapporto, goccia dopo goccia, con i miei cari. Che stupido! Dovevo andare là, dovevo andare là. Ora, immediatamente, bisogno primario, boccata d’ossigeno dopo minuti sott’acqua. San Francesco. Primo pomeriggio. San Francesco è la chiesa sulla punta di Vieste. San Francesco è l’ultimo saluto che il paese dà al mare, prima di abbandonarsi a quell’immenso. Attraversai di corsa tutte le stradine della città vecchia, luoghi in estate accalcati di gente ed ora sorprendentemente nudi. Correvo, correvo, correvo. Qualcosa, qualcuno mi richiamava là. Giunsi alla chiesa, la costeggiai ed arrivai ad un prato incontaminato: l’ultimo, vero, saluto che la civiltà lasciava alla natura. Mi appoggiai ad una roccia per riprendere fiato. “Oh, si prop fuoor alenamend” giunse una voce da pochi metri più in là. Era un pescatore che, con la solita indifferenza mista a curiosità dei pugliesi, attaccò bottone. “No guardi, signor pescatore, sto rincorrendo la mia anima” stavo per dire. Ma capii che questa frase avrebbe comportato ulteriori spiegazioni se non derisioni, quindi sorrisi e mi voltai. “Nui sim dei tendador” riattaccò. Era un signore anziano, le rughe profonde rappresentavano il segno del tempo scavato sul suo viso. Ma i suoi occhi erano sereni, puri, schietti. “Noi siamo degli illusionisti” proseguì sicuro. “Vendiamo finzione alle nostre prede per attirarle. L’esca è il richiamo. Il pesce saggio la ignora, il pesce ingordo ci casca. Più l’esca è fatta bene, più sfidiamo la loro arguzia. Fino ad arrivare all’esca vera, che è la contraddizione totale, perché il tuo pane diventa l’anticamera della tua morte. Non scendere mai sotto l’ accontentarti, non salire mai sopra l’ingordigia. Solo così sopravvivrai.” Rimasi a bocca aperta. Non perché volessi vedere una metafora in tutto, ma quell’uomo mi aveva sbattuto in faccia il mio errore. L’ingordigia di pane. E il mio pane era l’amore. Io volevo essere un punto di riferimento per tutti, io volevo dare le migliori soddisfazioni nella vita ai miei genitori, io volevo essere il trascinatore della compagnia. Io volevo, io volevo, io volevo. Ma ho ceduto in tutto, ho peccato in ogni cosa. Chi è ingordo alla fine perde. Tutto nella mia mente si stava aprendo, riassettando, chiarendo. Il cielo invece si stava improvvisamente…coprendo! A Vieste è così, sarà che è esposta ai venti, ma il tempo cambia con una velocità incomprensibile. Nel giro di pochi minuti il cielo era diventato nerissimo. Il vento piegava i rami fischiando come una stridente melodia, il mare insorgeva come un padre severo.“Riparati figliolo” disse il pescatore, ritirando in gran fretta la sua attrezzatura. Io invece sentivo la pace. Estate, spiaggia al tramonto, la gente rincasa, il mare ti culla, il gabbiano ti saluta, tu leggi un libro e non sai se è più magico ciò che leggi o quel che ti circonda. Io ora mi sentivo così. Sentivo la mia mamma che mi chiamava, dal mare. Sentivo il mio nonno che mi diceva che il pranzo era pronto, lavati le mani birbante che si fredda, dal cielo. Chissà che in quel pescatore ci fosse un po’ di lui. Sentivo mio padre che mi invitava a fare un giro in barca, dai che oggi ci si diverte, dal vento. Sentivo loro dalla natura. Sentivo loro nella natura. Sentivo loro natura. “Vienn’ acca! S’impazzuet??!!” gridavano gli altri pescatori correndo al riparo mentre io mi dirigevo, dalla parte opposta, verso gli scogli. Non ero impazzito, cari miei compaesani, ero semplicemente vivo. Sentivo la pace, non grazie ad una ragazza, una compagnia od un evento. Sentivo la pace grazie a me. Me soltanto. Me totale. Me puro. La pioggia iniziò a bagnarmi il viso, l’odore dell’umidità risaliva dai prati. Sentivo le braccia tremare, il formicolio alle dita proprio come prima di svenire. Un urlo…immenso, liberatorio, totale, intimo, dolce, arrabbiato uscì dalla mia voce. Alzai gli occhi al cielo …e…PIANSI! Il cielo era la mia culla e la sua pioggia l’immensa lacrima che mi donava. E tutto era pace, tutto era chiarito, tutto era amore. ....... Le labbra erano unite nel nostro pianto, il quale era unito nei nostri corpi, che erano uniti tra i pini protettori, che chiedevano spazio al cielo sornione. Cielo che, davanti a quel miracolo di vita, si sentiva quasi indiscreto spettatore. ...... “Perché?” fu l’unica parola che riuscii a dire.“Perché sei il sospiro di vita che si è posato su di me, mi ha avvolto, mi ha protetto nel silenzio della distanza e mi ha spinto a rialzarmi” rispose.​.... “L’ho fatto io, con le conchiglie di Vieste” – partì lei come al solito in uno dei suoi inaspettati monologhi – “Vieste rappresenta la tua rinascita ed il mio dolore, è l’unione del nostro male e del nostro bene; è il nostro tao: la guerra e la pace interiore. Non esiste il male senza il bene né, ahimè, viceversa. Per questo un giorno io vorrei vivere qui con te. Perché quella luna è il nostro sorriso e questa pioggia la nostra lacrima. Noi siamo nati dalle emozioni di questo luogo. Noi siamo questo luogo”. Io baciai lei, il sole baciò noi, quasi intimorito da quanto quella nostra prima dichiarazione brillasse nel cielo più di lui. ...... Come ogni sera, sono seduto sugli scogli a gustarmi il tramonto. Ti stai avvicinando con lo sguardo mai banale di chi sta chiedendo una cosa mai banale. “Andrea, secondo te sarà per sempre?” “Liliana, facendomi questa domanda è come se mi servissi un assist a porta vuota. Ma è troppo scontato per me segnare. Potrei dirti di si, come farebbe chiunque altro, ed abbracciarti davanti a questo immenso. Ma sarei ingiusto. Io non posso sapere se sarà per sempre. La vita è una matassa così imprevedibile. Hai visto cosa ha riservato con noi, te lo saresti immaginata mai tre anni fa di essere in questa situazione?! Io non ti posso dire che sarà per sempre, ma ti prego di non rimanere delusa da questa mia frase, perché dicendoti il contrario mancherei di rispetto al nostro amore, promettendoti una cosa che non posso

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